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Mercoledì, 29 Settembre 2021 09:11

L'autenticità? Una dote che perdiamo crescendo

Intervista ad Anna Maria Testa

A cura di Giuseppe De Paoli

Pubblicata sul numero 30/2021 di Reputation Today

C’è un sottile filo conduttore che lega l’atto creativo e l’autenticità. Lo percepiamo quando vediamo i bambini muoversi con spontaneità e vorremmo (chi più chi meno) vivere emozioni e desideri come fanno loro, senza pensarci su. Vorremmo essere più spontanei, più liberi più “autentici”. Ma cosa vuol dire essere autentici e come possiamo riconoscere e sviluppare le nostre risorse interiori?

Lo chiediamo a Anna Maria Testa scrittrice, saggista, docente universitaria, esperta di creatività e comunicazione.

Di essere “autentici” si parla sempre più spesso, e qualche volta l’invito a essere autentici rischia di trasformarsi in un’ingiunzione paradossale. Cioè in un’ingiunzione che nega sé stessa rendendosi impossibile da soddisfare.
Per certi versi, infatti, possiamo pensare che l’essere autentici escluda per forza di cose ogni forma di programmazione, e ogni imperativo a dover essere in un modo, o nell’altro.
Così, non si può “essere autentici a comando”, esattamente come (questo è l’esempio che fa Watzlawick quando parla di ingiunzioni paradossali) non si può essere spontanei a comando.
Inoltre, se crediamo che essere autentici significa “essere spontanei come sono spontanei i bambini”, non possiamo che rassegnarci a perdere, crescendo, l’autenticità insieme all’infanzia.
Forse, però, esiste un’altra strada. Consiste nel pensare che essere autentici consista nell’essere onesti con sé stessi, in primo luogo, e onesti con gli altri.
Aver ben chiari i propri valori, e anche i propri limiti. Ed evitare, per quanto possibile, di indossare le troppe maschere che apparentemente ci vengono imposte. E che invece a volte scegliamo noi di metterci addosso, per pigrizia o conformismo, o per semplice distrazione.

Come trovare equilibrio tra ciò che desideriamo e le opportunità che la vita ci offre?

Credo che questa sia una domanda ricorrente, alla quale secoli di filosofia non sono riusciti a dare una risposta definitiva. Mi limito a segnalare che già evitare di intrappolarsi in un perfezionismo impossibile può essere un buon primo passo.

L’Italia ha un passato molto creativo ma ha gradualmente perso buona parte del suo appeal in tal senso. Come recuperare la vena creativa?

Credo che sia importante non generalizzare. In molti ambiti (dalla moda al design alla cucina e a tutto l’universo del cibo) la qualità creativa delle produzioni italiane è riconosciuta in tutto il mondo.
Abbiamo imprese leader in settori ad alta specializzazione, come la meccatronica. Forse dovremmo smettere di piangerci addosso e darci da fare per sviluppare e ampliare le nostre aree di eccellenza, essendo giustamente orgogliosi.
Quanto alla creatività appartiene a tutti. Va incoraggiata e alimentata attraverso un crescente consenso sociale. Sapendo che non si tratta mai di un’attività fine a sé stessa.
Consiste invece nel produrre idee e soluzioni nuove, il cui valore e la cui utilità (non solo economica, ma anche estetica, o etica) possa essere riconosciuta da tutti.

La creatività trae giovamento da un contesto che prevede apertura mentale, istruzione di qualità, risorse finanziarie. Sarebbe utile, secondo lei, prevedere degli incentivi per chi ha idee imprenditoriali nuove che favoriscano il turismo ponendo in rilievo il valore dell’ambiente, della cultura, dei luoghi di benessere?

Più che incentivi, potrebbe essere utile offrire ambienti in cui sia favorita, facilitata e guidata la produzione di nuove idee, e sia aiutato il passaggio cruciale e delicato dall’idea di base al suo sviluppo e alla sua applicazione. Mi risulta che ci siano incubatori dove questo già avviene. Forse ce ne vorrebbero di più, e più facilmente accessibili.

La conoscenza è essenziale per la creatività, ma il nostro Paese su questo tema sembra un po’ schizofrenico: ha aderito al progetto della Commissione UE per portare la quota di laureati al 27% (attualmente da noi è al 20%) e, nello stesso tempo, ha ridimensionato il peso delle Università pubbliche. Che cosa ne pensa?

Il settore dell'istruzione è cruciale. Ma comincia a essere cruciale ben prima dell’università. Abbiamo, qui in Italia, delle ottime scuole elementari ma i test OCSE-PISA (per accertare le competenze degli scolari (n.d.r.) ci dicono che, già a partire dalle medie, ci sono molte aree di miglioramento.
Inoltre, anche in quest’ambito, è ingiusto generalizzare: esistono istituti o singole classi di assoluta eccellenza, e altri istituti o altre classi i cui studenti hanno una formazione del tutto insufficiente. La pandemia non ha certo migliorato le cose.
Detto questo: il futuro del paese sta nella formazione dei giovani, e nella formazione permanente degli adulti. È una semplice verità che andrebbe ricordata più spesso.

A quale nuovo progetto sta lavorando?

È uscito da qualche mese un libro, intitolato Il coltellino svizzero, in cui ho trattato più estesamente anche alcuni dei temi a cui si riferiscono queste domande.
Tra poco uscirà, invece, e sempre con Garzanti, Le vie del senso, che tratta in dettaglio la relazione che c’è tra testi e contesti, e tra parole e immagini. È un tema molto contemporaneo, e mi auguro che il libro possa interessare a molti.

Anna Maria Testa Scrive su internazionale.it. Ha creato e cura il sito Nuovo e Utile (https://nuovoeutile.it).
Tra i suoi libri Farsi capire (Rizzoli), La pubblicità (Il Mulino), Le vie del senso (Carocci), La trama lucente (Rizzoli), Il coltellino svizzero (Garzanti)

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