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Giovedì, 29 Luglio 2021 17:36

Il potere attivo della parola per creare nuova realtà

Intervista ad Alberto Contri

A cura di Giuseppe De Paoli

Pubblicata sul numero 29/2021 di Reputation Today

Docente di Comunicazione Sociale, saggista, già ai vertici di multinazionali e associazioni della comunicazione. È stato per vent’anni presidente della Fondazione Pubblicità Progresso. È consulente per enti, aziende, istituzioni.

È stato anche Consigliere della RAI, Amministratore Delegato di Rainet, e direttore generale della Lombardia Film Commision.
Il Presidente Ciampi lo ha insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica

Oggi più che mai, ora che la pandemia è più silente, ma non sconfitta, abbiamo bisogno di collaborazione, di confronto di risposte creative al periodo difficile che stiamo vivendo. Qual è secondo lei la “cosa giusta” da fare?

Anzitutto mi lasci dire che sono rimasto colpito dal fatto che in tutto questo periodo i vaccini siano stati presentati come l’unica arma possibile contro il Covid19, senza prendere in considerazione altre cure che pure hanno dimostrato di avere efficacia.
C’è stato poi un proliferare di opinioni scientifiche diverse, visioni contrastanti, non di rado agli antipodi tra i virologi più noti: siamo stati subissati da messaggi contradditori, dati e numeri a iosa, notizie fuorvianti, a volte addirittura errate e comunque difficilmente verificabili. Ottimi specialisti sono stati spesso inefficaci nello spiegare il da farsi, infettati subito dal virus del presenzialismo televisivo. Con una delle sue abituali fulminanti intuizioni, il critico televisivo Aldo Grasso li ha ribattezzati “gli addetti ai livori”. Chi ha osato sollevare dei dubbi è stato bollato come ‘complottista’ da dubbie agenzie di debunking, in palese conflitto di interessi.
La comunicazione pubblica è stata gestita da sedicenti esperti, soprattutto occupati a dire che tutto andava bene tessendo le lodi del premier (Conte). In mancanza di una comunicazione precisa, chiara, calibrata, la paura ha spesso preso il sopravvento. Quindi, per ripartire oggi, bisognerebbe raggiungere una maggiore chiarezza e poi cambiare radicalmente l’approccio comunicativo.

Quali interventi immagina per la ripresa, quali parole possono aiutare?

Il Paese è in una situazione difficile dopo le lunghe chiusure e le limitazioni che ha dovuto subire, mentre mancava una visione strategica. L’uomo è un animale sociale: dopo essere stato chiuso in casa per mesi, ha voglia di uscire, socializzare, riprendere la vita di sempre. Si è scoperto che in diversi casi il lavoro a distanza può essere utile, ma si avverte il bisogno di tornare al contatto umano, in presenza, c’è bisogno di riprendere le relazioni e gli scambi personali.

In che modo la pandemia ha influenzato il nostro modo di socializzare e comunicare?

Dipende. Ogni classe sociale ha reagito in modo diverso. I più benestanti, e i loro giovani, hanno dimostrato di avere più risorse per affrontare la situazione. I più acculturati, abituati a leggere e ad approfondire si sono dimostrati più flessibili ed elastici. Le classi meno agiate hanno sofferto per la mancanza di spazio, di smartphone, pc, banda larga. Un terzo degli allievi non ha potuto seguire la DAD: una quantità enorme di studenti che hanno perso un anno, e non solo. Molti di loro purtroppo già non leggevano i giornali né guardavano la tv, sono poco informati e “umorali” nelle reazioni, vivono in uno stato di costante attenzione parziale. La loro vita è una successione d’istanti, senza alcuna idea del futuro perché non sanno nulla del passato. È un grave problema antropologico che già segnalavo nel mio libro “Mac Luhan non abita più qui?” (Bollati Boringhieri 2017). Per questo è importante, soprattutto per chi fa comunicazione, trovare nuove forme d’espressione che sappiano utilizzare i social media secondo le loro specifiche grammatiche e sintassi. Un compito difficilissimo.

Competenza, talento, responsabilità, tenacia, pazienza: quali di queste qualità sarebbero particolarmente utili in questa fase?

Tutte. Qualità tipiche dei veri professionisti che hanno studiato e che hanno esperienza. Il problema è che il vento dell’“uno vale uno” ha mandato al potere degli improvvisati senza competenze né cultura. E spazzato via tutti gli altri. Ne ho parlato, identificando problemi e soluzioni, nel mio ultimo saggio “La sindrome del criceto” (Edizioni la Vela 2020).

ln questi tempi di informazioni banalizzate e urlate la nobile arte dell’ascolto è poco praticata, sebbene sia fondamentale per una buona comunicazione. Come valorizzare l’ascolto? Andrebbe insegnato a scuola?

A scuola si potrebbe fare molto. Ricordo che ai miei tempi, in classe, c’erano momenti in cui l’insegnante (o un alunno) leggeva una storia, gli altri ascoltavano e poi, a sorpresa, uno era chiamato a sintetizzarla. Era una buona pratica che andrebbe recuperata. Altro che consentire il cellulare in classe. Per sviluppare doti dialettiche, bisogna recuperare la scrittura a mano soprattutto da piccoli, e non mettere troppo precocemente le mani su un device elettronico.

Ripensare la nostra comunicazione, dopo la pandemia e l’infodemia è necessario: occorrerà superare la pigrizia mentale, gli schemi prefissati, le visioni manichee che vanno di moda sul Web. E dovremo confrontarci sempre più con tecnologie avanzate. Un lavoro non facile...

Siamo in epoca in cui aumentano le opzioni informative e di intrattenimento ma diminuisce il tempo per fruirle. Abbiamo un eccesso di stimoli e reagiamo, sbagliando, cercando di diventare ancora più multitasking. Si finisce per collezionare frammenti, ritenendo che la velocità possa supplire alla mancanza di approfondimento, ma non è così.
I giornali perdono colpi e si comportano da anni come se nulla fosse successo, e si lamentano perché hanno dimezzato le copie in una decade: articolesse lunghissime, poca capacità di sintesi, quando le ricerche ci dicono che oltre il 60% degli italiani non sa decodificare un articolo di media difficoltà. Eppure basterebbe ispirarsi al passato: Montanelli e Biagi scrivevano editoriali di 60 righe, chiari e assai comprensibili.

In che modo e quanto la comunicazione incide sulla reputazione?

È fondamentale. La comunicazione è il vestito di una istituzione e di una impresa. Un vestito, un abbigliamento dice molto di noi. Ma non basta mettersi una volta sola un bel vestito. Ci vuole continuità. Per tenere alta la propria reputazione imprese e istituzioni sono condannate alla qualità in ogni comportamento e in particolare nella comunicazione. Ma prima di comunicare, occorre aver impostato una strategia, aver stabilito a quale pubblico si vuole parlare, con quali mezzi, avere ben chiaro cosa si vuole che apprenda dalla nostra comunicazione. Insomma è roba da professionisti, mica da dilettanti improvvisati.

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