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Martedì, 20 Giugno 2017 12:27

“Il cinema italiano racconti il Paese reale”

Intervista a Pupi Avati

A cura di Claudia di Lorenzi

Pubblicata sul numero 13/2017 di Reputation Today

Italia può vantare all’estero molte eccellenze nel campo dell’arte ma tra queste, ormai da anni, non c’è più il cinema. Per lo più sconosciuto oltreconfine. La soluzione per una riscoperta ed un rilancio delle produzioni italiane passa per il recupero e la valorizzazione delle nostre peculiarità, delle tradizioni e degli usi, del linguaggio e dello stile, di tutte quelle prerogative che compongono, dentro e fuori i confini, il nostro essere italiani, contro ogni forma di omologazione. Ne abbiamo parlato con il regista Pupi Avati, che sta lavorando al suo prossimo film:

Maestro Avati, come sta il cinema italiano? Qual è il suo stato di salute? Si parla ancora di crisi, calo degli spettatori, il pubblico premia solo le commedie, poca creatività e voglia di rischiare: che ne pensa?

“Quello che penso io ha un valore relativo, ci sono purtroppo dati espliciti: se facciamo una comparazione con quello che è stato il numero degli spettatori, la chiusura delle sale e il rapporto fra i film e il pubblico cinematografico inteso in senso tradizionale (perché poi sono subentrati dieci, cento e mille modi attraverso i quali si fruisce di un film) la crisi del cinema è evidente. È sufficiente vedere la riduzione delle sale soprattutto nei centri storici dove sono scomparse, i mono-schermo non ci sono più e sopravvivono solo le multisale periferiche con delle programmazioni da blockbuster dove arrivano soprattutto successi stranieri e dove il cinema italiano fino a poco tempo fa arrivava con commediole di nessuna ambizione. Ma ormai nemmeno più quelle riescono a trovare uno spazio. Quindi la vera crisi del cinema italiano – e sono in questo ambiente da quasi 50 anni – io la rilevo adesso: non c’è mai stato un momento di disamore così totale ed esplicito fra il pubblico e la proposta italiana”.

 

i giovani non considerano più il cinema come il mezzo di distrazione che era per le generazioni precedenti. Andare al cinema era talvolta anche un pretesto per fare tante altre cose, e il cinema e certi film soprattutto diventavano dei must

 

Quali sono le cause secondo lei?

“Anzitutto il fatto che i giovani non considerano più il cinema come il mezzo di distrazione che era per le generazioni precedenti. Andare al cinema era talvolta anche un pretesto per fare tante altre cose, e il cinema e certi film soprattutto diventavano dei must. Questo cambiamento lo vedo soprattutto nella vita dei miei nipoti che al cinema ci vanno molto molto raramente a vedere certi film americani particolari sui quali si concentra un incasso stratosferico che raccoglie tutto quello che si può incassare e tutto il resto non esiste. Non parliamo del cinema italiano: il rapporto fra i giovani e il nostro cinema è inesistente. Insegno recitazione e mi trovo in classi di ragazzi 18enni e 20enni e chiedo loro chi siano Rossellini e Sofia Loren e non sanno chi sono. C’è stata una sorta di chiusura e di silenzio con questo pubblico di nuovi che considera solo un certo tipo di prodotto mentre tutto il resto non esiste. Non parliamo della famiglia che aveva altri doveri che non ha assolto. Ma nemmeno la scuola ha fatto niente perché la cultura cinematografica rientrasse fra le discipline. Dal 1929 il cinema poteva essere considerato quasi all’altezza della letteratura: è stato un elemento narrativo che ha acculturato generazioni e generazioni, ma inteso così la scuola non lo ha mai considerato. Non credo che nei programmi ministeriali sia mai stato incluso il cinema e quindi i ragazzi non hanno il minimo interesse. Quindi il destino del cinema italiano è quello di ripiegarsi sempre più su se stesso e rimanere una cosa riservata a delle élite. Infatti mi risulta che l’età media degli spettatori cinematografici è aumentata, al di sopra dei 40 anni. Una volta era al di sotto dei 30. Le persone che vanno al cinema adesso sono i 40enni e 50enni”.

Si parla anche di una scarsa presenza del cinema italiano sui mercati stranieri: l’84% dei suoi spettatori sono italiani. Quanto è conosciuto all’estero il cinema italiano? Che opinione c’è? Un tempo era motivo di vanto per il Paese ma è ancora apprezzato?

“Il cinema italiano non è apprezzato perché si è spogliato della sua identità, come è accaduto al Paese: l’Italia è un paese totalmente culturalmente colonizzato dove le identità che erano il punto di forza sono sfumate. Si pensi a quello che è accaduto dal neorealismo in poi: essere italiani voleva dire obbedire a degli stereotipi per i quali eravamo famosi nel mondo, dagli spaghetti ai mandolini. Avevamo delle nostre prerogative che ci hanno permesso di conquistare i mercati mondiali attraverso la realtà della nostra vita ed eravamo qualcosa di assolutamente diverso. Purtroppo l’omologazione, con una mancanza totale di difesa delle nostre prerogative, ha fatto sì che l’Italia non avesse più una sua identità culturale, niente di suo che non sia del passato nell’arte che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduti e sulla quale ancora contiamo. Pensi all’invasione dei turisti a Roma e nelle città d’arte: non vengono a vedere i nostri film ma la Cappella Sistina”.

Lei stesso dice che “il cinema italiano non sta incassando più nulla, il box office è un bollettino di guerra”. Allora come risollevare la reputazione del nostro cinema, in Italia e all’estero?

“Non credo sia un’impresa possibile, e sicuramente occorrerebbe una sorta di anno sabbatico, di assenza totale, coraggio di cominciare da capo riconsiderandoci per quello che veramente valiamo, per quelli che sono i nostri pregi e sono tanti. Pensi al sud dove l’Italia è rimasta quella di una volta, anche nelle espressioni più negative come le mafie. Ma il sud, contrariamente a tutto il resto del paese che si è spogliato del passato ed è immerso totalmente nel presente, conserva il presente e il passato e si trovano ancora tradizioni e usi di come era la gente una volta. Quella Italia lì la si vede rappresentata televisivamente o cinematograficamente solo dalla mafia e dalla ndrangheta, non c’è nessuno che racconti il sud nelle altre sue peculiarità, perché non si può credere che siano tutti mafiosi. Riproporre questa parte del nostro Paese attraverso un’ottica più obiettiva sarebbe stato un modo per salvare quella Italia che è ancora molto italiana dalla omologazione e dalla Silicon Valley”.

Per “rigenerare un cinema italiano in cui ci sono sempre i soliti cast, dove non distingui un film dall’altro”, lei vuole andare controcorrente e tornare a un genere che le ha dato successo ma che non frequenta da tempo: l’horror. Come mai questa scelta?

“Invecchiando si torna molto a quello che si è stati da ragazzi. Psicologicamente la vecchiaia somiglia infinitamente all’adolescenza, alla giovinezza e all’infanzia, forse è un rimbambimento senile? Non lo so, ma avverto che tornano a piacermi le cose che mi piacevano da bambino e il cinema con il quale ho cominciato e che mi attraeva di più era il cinema di paura perché era quello che somigliava di più alla favola contadina che mi veniva raccontata quando ero bambino durante lo sfollamento. Non volendo assolutamente piegarmi all’indecenza di queste commedie italiane del presente – che sono quanto di peggio si possa fare, pretendono di essere prodotti di successo commerciale e non riescono ad essere neppure quello – non per un calcolo economico ma per una esigenza mia personale, per rientusiasmarmi e ritrovare la sfida e mettere l’asticella un po’ alta, mi piace pensare di tornare al rapporto col cinema che avevo da ragazzo. Un rapporto che era un po’ infantile e che ricorda il gioco dei bambini che si nascondono dietro la tenda e poi improvvisamente escono e fanno “buu!”, e tu fingi di spaventarti per farli contenti e poi loro sono felicissimi. In questo rapporto c’è la sintesi di questa idea di cinema”.

Ha parlato delle cose che la spaventavano da bambino. Oggi che è adulto cosa la spaventa?

“Mi spaventa il cinismo, la sfiducia: tutte le persone che detengono un potere improvvisamente peggiorano. In tutti gli ambiti, da quello politico a quello familiare ed ecclesiale. Appena ti mettono dei gradi sulle spalline tu peggiori, non c’è nessuno che è migliorato. C’è evidentemente una cattiva scuola che insegna che nel momento in cui ti danno una bacchetta e una leva di comando tu devi improvvisamente non tener conto del tuo prossimo, occuparti soprattutto di te stesso. Io la avverto molto diffusa questa cultura che è tipica di questi ultimi decenni. Una volta se non altro lo si nascondeva. Adesso c’è una sfrontatezza del potere che è una lezione perché insegnano che il potere vuol dire arroganza, imposizione, abbattere l’avversario, non considerare più il prossimo. Mi chiamano spesso a parlare pubblicamente e la cosa su cui insisto di più è il valore della vulnerabilità e delle persone incerte e deboli. Le persone sconfitte sono le migliori, quelle che dovremmo ascoltare, i talk show dovrebbero invitare questi testimoni della realtà non i vincitori. Nonostante il fallimento generale sono sempre i vincitori che si siedono a quel tavolo e ci dicono come doveva essere, avendo dimostrato più e più volte di non saperlo, con l’arroganza e la supponenza di poter insegnare. Se invece si cominciasse a considerare gli sconfitti, quelli che nella vita avevano dei sogni che non si sono realizzati, e se loro raccontassero un po’ di loro stessi probabilmente avvertiremmo un tasso di autenticità infinitamente maggiore. E sentiremmo che c’è qualcuno di più vicino a noi che ci parla”.

Il film in lavorazione ha già un titolo, Il Signor Diavolo, e sarà tratto dal libro omonimo scritto da lei stesso: è la storia di due ragazzi del Polesine degli anni ’50. Ci anticipa qualcosa?

“È la storia di come in un angolo remoto, spazzato via dalla modernità, si sia andato a nascondere il diavolo. È un tipo di religiosità ancora arcaica in cui il male ha un nome e si chiama satana, demonio. E il contesto è quello nel quale sono nato perché da bambino piccolo era così, l’ultima spiaggia di un modo di vedere le cose in cui era presente anche il male, e c’erano i limiti della cultura contadina, con tante problematiche e negatività che grazie al cielo, anche con il Concilio Vaticano II, abbiamo superato. Però se chiedessi oggi a un sacerdote “Ma esiste il diavolo?” io non so che risposta mi darebbe”.

Tra i suoi film horror, due capolavori sono La casa delle finestre che ridono, uscito nell’agosto del 1976, e Zeder del 1983. Cosa c’è di queste opere nel film che sta ultimando?

“In comune c’è l’atmosfera. In questo genere di storie credo che la cosa più spaventevole non sia tanto l’intreccio narrativo quanto l’atmosfera, cioè il contesto nel quale i protagonisti sono costretti a muoversi. Io spero di essere capace di tornare a spaventarmi come quando mi spaventai girando quei film”.

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