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Lunedì, 10 Aprile 2017 12:40

“Il corpo delle donne”. È la tv che indica la donna di successo

Intervista a Lorella Zanardo, attivista e scrittrice

A cura di Claudia di Lorenzi

Pubblicata sul numero 12/2017 di Reputation Today

Donne di successo, donne vincenti, donne considerate dei punti di riferimento, donne popolari, modelli da imitare, figure ideali da perseguire. Le troviamo in tv soprattutto, fra un’intervista e un servizio al tg, fra un’ospitata e la conduzione del programma “cult” di prima serata. Spesso loquaci, altrettanto spesso silenziose, ammiccanti quasi sempre, “stilose” per natura. Ma riempiono anche le pagine dei rotocalchi rosa e soprattutto spopolano sui social network con decine di migliaia di “follower”, innumerevoli “like” e commenti entusiasti. Ed è proprio lì, sui media, vecchi e nuovi, che vengono incoronate regine di bellezza e di fascino. Anzi sono proprio loro, i media, che le etichettano come tali perché rispondono a quei criteri che gli stessi mezzi di comunicazione hanno scelto come “fattori di successo”.
Sono i mass media in effetti, fra i quali primeggia ancora la tv, a condizionare in misura decisiva la gerarchia dei valori, a disegnare la geografia del successo, a stabilire i parametri su cui si misura la reputazione della donna. Per fortuna, oltre i confini dell’universo massmediale, ogni contesto di vita, pubblico e privato, esprime le sue peculiari e auspicabili “skill”, ma non di rado i parametri e i modelli dei media vengono trasferiti sulla vita reale, che smette di essere rappresentata per somigliare alla rappresentazione.

Lo descrive bene l’attivista e scrittrice Lorella Zanardo nel documentario Il corpo delle donne realizzato nel 2009, messo in rete e subito diventato virale: una denuncia coraggiosa sul potere “deformante” dei media che rappresentano la donna secondo immagini stereotipate, lontane dalla realtà eppure condizionanti. Immagini che individuano modelli e suscitano aspettative, fra le donne e gli uomini di tutte le età e le condizioni sociali. L’abbiamo intervistata:

Zanardo, in apertura del documentario lei dice: “Le immagini televisive sono uno specchio preciso per certi comportamenti. Ho cercato di guardare dentro quello specchio per vedere chi siamo e magari riuscire a modificarci se non ci piacciamo”. Sono passati alcuni anni ma la TV non è molto cambiata. Che immagine della donna emerge dalle sue osservazioni?
 
“È una donna non reale, inventata dai media, quindi accade un gioco degli specchi pericoloso: i media propongono insistentemente una donna artefatta, dalle proporzioni fisiche falsate, rifatta chirurgicamente, che diventa però reale perché alla fine ci ispiriamo a quel modello di donna. Ma questo modello crea disagio alle donne. Pensiamo alle giornaliste 60enni che grazie alla chirurgia e all’uso delle luci sembrano 30enni: le loro coetanee che guardano da casa pensano che sia un modello reale e al confronto si sentono inadeguate. Altre volte la tv propone un modello ancillare: oggi ormai, dal nord al sud dell’Italia, le donne sottomesse sono sempre meno, mentre in tv proliferano i diminutivi “veline”, “schedine”, “meteorine”, ma noi finiamo di dire “ine” alle bambine quando hanno sei anni, invece questa tv ci mostra una donna bamboleggiante, inventata”.

Perché le donne faticano a mostrarsi come sono, e come liberarle da questo condizionamento?

“Negli ultimi anni le cose sono un po’ migliorate, per esempio le riprese dal basso molto oggettivanti sono meno numerose, ma manca comunque la narrazione delle donne vere, come lei che è giornalista e me che sono attivista, la donna che lavora e si mantiene. E questo vale anche per la pubblicità e per la stampa. Cosa fare allora? Credo che molto dipenda dalle donne e noi in Italia non siamo ancora sufficientemente sicure della nostra autorevolezza: non basta avercela fatta nel lavoro, serve fare di più e avere la forza della ribellione. Se le immagini che vediamo non ci corrispondono protestiamo! Un problema che vedo ancora diffuso, soprattutto fra le ragazzine, è invece il bisogno dell’approvazione maschile: non mi serve il consenso del mio ragazzo, o che lui mi accompagni, per manifestare in piazza per i diritti delle donne. È come se Martin Luther King avesse dovuto chiedere ai bianchi il permesso di manifestare per i diritti dei neri. In altre parole serve assertività, e per esempio non accettare più che le donne vengano pagate il 30% in meno degli uomini a pari ruolo. E se nelle grandi città ci sono manifestazioni a cui partecipano donne già sensibili, giovani, femministe e colte, nei piccoli paesi le donne sono ai margini rispetto a questi eventi e guardano tanta tv, che ha ancora una penetrazione del 97%. Quindi attraverso la tv si può fare moltissimo per l’empowerment delle donne”.

Nel filmato le dice anche: “Ho capito che gli specchi servono spesso a nascondere, oltre che a rivelare”. Cosa nascondono le donne?

“Credo che ci sia di fondo una sorta di paura e di insicurezza, una tristezza, un dolore. Pensiamo alle donne adulte che “non sono nessuno” se non si camuffano da ragazza: è una gabbia feroce. Nascondiamo il dolore di dover corrispondere a un modello, di dover essere più giovani e belle altrimenti non ci vuole nessuno. Un uomo può andare in tv coi capelli bianchi, la pancia e i nei sul viso, e a 70 anni avere una fidanzata di 30 ed è normale così. Per noi questo non è possibile, dobbiamo camuffarci. Se vado in tv così non mi prendono nemmeno per fare le pulizie. Io non sono contro la chirurgia estetica, ma va bene se è una libera scelta, non un’imposizione”.

Che donna vorrebbe vedere in tv?

“Sto passeggiando per Milano e vorrei vedere donne come quella che mi passa accanto, sui 50 anni, alta come me, con dei libri sotto braccio, sembra un’architetta. Donne come quelle che vediamo nelle altre tv d’Europa, perché l’Italia ha un primato negativo. Lo dice la ricerca del Censis “Donne e media in Europa”, secondo cui la tv pubblica all’estero propone immagini di donne normali, vestite e truccate normalmente, che vanno in tv a raccontare cose interessanti. In Italia non accade e questo è ancora più grave se pensiamo che fra gli italiani il 60% non legge mai e c’è un alto tasso di abbandono scolastico, e la tv resta l’unico strumento per proporre l’immagine di una donna nuova. Vedere in tv una donna medico o scienziata che si racconta potrebbe essere una forte fonte di ispirazione”.

Il potere di influenza dei media è dimostrato da molti studi, ma non tutti ne sono consapevoli, né sono “attrezzati” per guardare in maniera analitica la tv, soprattutto gli utenti più giovani e meno preparati culturalmente. E in mancanza di punti di riferimento è dal piccolo schermo che si attingono valori e modelli e si definiscono gerarchie e priorità. Per non subire questo condizionamento l’antidoto più efficace è l’educazione ai media. A che punto siamo secondo lei?

“Non si è fatto nulla. Con la mia associazione che si chiama “Nuovi occhi per i media” (http://www.nuoviocchiperimedia.it/occhiperimedia.it/) abbiamo cominciato a fare educazione nelle scuole, perché è un’esigenza reale. Noi genitori siamo obbligati a mandare a scuola i figli perché diventino cittadini consapevoli, ma è da ignoranti pensare che i media, ai quali i ragazzi dedicano molto più tempo che non ai libri, non abbiano bisogno di una alfabetizzazione. Si deve passare da una visione passiva a una attiva. Noi diciamo viva internet, non lo demonizziamo, però è come dare la Lamborghini in mano a una persona che non ha la patente. Il MIUR ad oggi non fa educazione ai media, c’è una risoluzione europea di due anni fa che consiglia vivamente di farla e la Germania ad esempio ha adottato il programma formativo immediatamente. Non bastano corsi universitari serve partire dai bambini più piccoli”.

A questo proposito, il suo lavoro propone nuovi strumenti di lettura dell’immagine televisiva. Strumenti illustrati nel volume “Senza chiedere il permesso”, edito da Feltrinelli, che lei ha scritto dopo la realizzazione del documentario. Ce ne parla?

“Abbiamo capito che per insegnare ai ragazzi, a partire dalla terza media in su, a leggere le immagini serve lavorare sui programmi che vedono, solo così catturiamo la loro attenzione. Allora andiamo nelle scuole, anche quelle più difficili, e chiediamo anzitutto cosa hanno visto il giorno precedente e cominciamo a stimolare una riflessione attiva: dove e a che ora è andato in onda il programma? Chi c’era davanti alla tv? E insegniamo l’uso della telecamera, mostrando per esempio che l’uomo viene inquadrato per lo più a figura intera o a mezzo busto, mentre per la donna si fa una panoramica dal basso che a volte non arriva al volto. Questo accade anche con personaggi illustri come il ministro Maria Elena Boschi: il fatto che viene ripresa dal basso cambia la nostra opinione su di lei? Agli uomini vengono fatte domande aperte e alle donne domande chiuse, come mai? E loro arrivano a comprendere”.  

Per fare un ulteriore passo avanti serve sensibilizzare gli editori, che notoriamente badano allo share e agli introiti pubblicitari. Qui un grande potere ce l’hanno i telespettatori...

“Su questo non sono d’accordo. Gli spettatori di oggi sono il prodotto di 30 anni di trash televisivo. Questo tipo di programmazione è nata a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 con le tv private e trasmissioni come Drive In, e a metà degli anni ’90 la Rai decise di seguirne le orme. Quindi chiedere allo spettatore che si è formato su questi 30 anni di scegliere è utopico. Credo che il lavoro da fare spetti al servizio pubblico, e basterebbe imitare le altre nazioni europee: la BBC One non ha un euro di pubblicità ma fa programmi fantastici, non difficili perché anche lì tengono conto del pubblico che non è fatto di geni. Non stiamo dicendo di mettere su Rai1 i programmi di Rai3 ma di fare programmi divulgativi che però informino. E non ci si può accontentare di Rai Educational che è molto bella ma ha ascolti bassissimi. La Rai deve ricordare che è servizio pubblico e che il suo obiettivo non è solo quello di fare fatturato ma di educare. Dire che la gente non guarderebbe programmi educativi è una sciocchezza perché dalle statistiche risulta che la gente è affezionata al canale, e per lo più guarda Rai1: se Sanremo andasse in onda su un altro canale non lo guarderebbe nessuno, mentre quando Roberto Benigni ha letto la Divina Commedia su Rai1 lo hanno guardato milioni di persone, idem per il Vajont di Marco Paolini. Negli anni ’60, quando in Italia c’erano analfabeti veri, dopo il Carosello c’era la poesia, il teatro di De Filippo. Quando il pubblico sarà educato potremo chiedergli di scegliere”.

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