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Giovedì, 10 Settembre 2015 17:54

Servizi segreti: il volto nuovo dell'Intelligence

Intervista al Paolo Scotto di Castelbianco, responsabile per la comunicazione istituzionale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza

di Claudia di Lorenzi, Direttore Responsabile di Reputation Today.

Pubblicata sul numero 6/2015 di Reputation Today

Paolo Scotto di Castelbianco: "Siamo usciti dall’ombra per promuovere una cultura della sicurezza partecipata. Non facciamo allarmismo a buon mercato: il nostro compito è tutelare i cittadini”

“Il DIS  ha il compito di coordinare le due agenzie dell’Intelligence, quella estera che si chiama AISE e quella interna, che è l’AISI. Ovvero ha responsabilità centrale sul personale, sull’addestramento e la formazione professionale, sul bilancio e l’analisi strategica. I Servizi dipendono dal Presidente del Consiglio, che si avvale dell'Autorità Delegata per la sicurezza della Repubblica, ed ha tra i sui stakeholder anche il Consiglio per la sicurezza nazionale formato dai ministri di Esteri, Difesa, Interno, Giustizia, Economia e Sviluppo economico, che hanno un nesso con la sicurezza nazionale. Dal 2012 il DIS ha competenza anche sul cyber per la protezione del sistema nazionale nei suoi asset strategici”. Così Paolo Scotto di Castelbianco, Responsabile della comunicazione istituzionale del Comparto Intelligence, illustra i compiti del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, che raccoglie e scambia informazioni, elabora analisi strategiche, vigila sull’applicazione delle norme circa il segreto di Stato e promuove cultura della sicurezza. Obiettivi che da qualche anno persegue adottando una strategia nuova, con regole d'ingaggio segnate da una maggiore apertura ai cittadini e dalla volontà di allungare il campo e farsi conoscere, e un’attenzione particolare ai giovani, in nome della trasparenza e per una sicurezza partecipata. Il sito degli 007 di casa nostra, http://www.sicurezzanazionale.gov.it, conta circa 200mila visitatori unici al mese, e che nella sola giornata del 7 gennaio scorso, dopo l’attacco al giornale satirico francese Charlie Hebdo, ha registrato circa 20mila click. Una piattaforma attraverso cui i cittadini possono non solo informarsi ma anche dialogare con i Servizi."

Direttore, questa intervista avrebbe dovuto tenersi alcuni giorni fa, ma la notizia del rapimento in Libia di quattro italiani, dipendenti della società di costruzioni e manutenzione di impianti energetici Bonatti, ci ha costretto a rivedere l’agenda. Di fronte ad un’emergenza come questa come opera l’Intelligence?

“Il DIS è l’ultimo miglio delle Agenzie operative verso l’Autorità politica, il Presidente del Consiglio e il Comitato parlamentare di Controllo, perché sia il Parlamento che il Governo, con gradi diversi di responsabilità, siano informati di quello che accade. Nel caso di un rapimento, ad esempio, sono molte le forze in campo, anzitutto c’è l’Unità di Crisi della Farnesina. E sono molti anche i rischi: bisogna tutelare gli ostaggi e le loro vite, gli operatori nostri e altri che potessero essere coinvolti in un tentativo di riportarli a casa, i circuiti di cooperazione internazionale, e tutto quell’insieme di rapporti che l’Intelligence intrattiene in teatri come questo."

Stiamo parlando di un rapimento ma si potrebbe parlare dell’attacco dell’11 luglio al Consolato italiano in Egitto. E allora le direzioni sono molte...

"Si attivano circuiti di cooperazione internazionale e il nostro capocentro in loco, che ha contatti con i servizi e le forze di polizia locali, ma anche con molti altri soggetti che magari non sono figure istituzionali ma possono essere influenti e utili per capire la situazione: non solo un mullah o un professore dell’università di al-Azhar ma anche chiunque abbia contatti 'pregiati' con gli ambienti sui quali si vuole realizzare un'azione informativa. Accanto agli interlocutori all’estero, stabili e pagati, che noi chiamiamo 'fonti', ci sono anche quelli occasionali, perché se domani succede una situazione in un territorio da noi non conosciuto in profondità, bisogna trovare dei contatti. In questo senso anche l’apporto di base dell’Intelligence da fonti aperte, l’Osint, può aiutare a decodificare meglio una determinata situazione. Si tratta di leggere la realtà, sapere a chi chiedere cosa, di chi fidarsi, chi può essere davvero influente per arrivare ad altro: se parliamo di un rapimento, chi ha rapito e cosa vuole; se parliamo di un attentato, chi lo ha fatto, modus operandi e messaggio operativo (cioè cosa vogliono comunicare con la loro azione), capire se è una tecnica da Isis o da gruppo anti Al-Sisi, allora potrebbe essere un gruppo di Fratelli Musulmani, sentire il racconto degli italiani. Nascono così delle ipotesi non fatte a tavolino ma frutto di queste informazioni. La fonte umana è importante, poi ci sono i mezzi tecnici. L'attività dell’Intelligence di norma non consiste nel pagare, anzi si colloca all’opposto. Ad esempio durante la seconda guerra in Iraq, per ottenere aiuto dal Consiglio degli Ulema, sono state svolte delle attività umanitarie, come la distribuzione di medicinali. Le abbiamo comprate, ma è diverso che pagare i mediatori. Allo stesso modo all’epoca del “governo” Negroponte, l’ambasciatore americano in Iraq, la nostra Intelligence fu sensibilizzata perché la sostituzione totale di una classe dirigente, quella sunnita, che era quella saddamiana, con nuovi soggetti emergenti produceva dello scontento. E in questi casi può essere utile la sensibilità di un partner- e l’Italia lo era insieme a tanti altri dell’impresa americana in Iraq – per aiutare: si tratta di strumenti come quello della sensibilizzazione politica, o di altri strumenti molto puliti di “soft power”. Ai tempi della campagna di Libia, l’Italia ha poi aiutato molti giornalisti libici a fondare i loro giornali, a fare reportage, a mettere le notizie sul web e a costituire delle radio. Ovviamente tuteliamo tutte le libertà, ma se ci sono delle libertà antagoniste a quelle primarie che dobbiamo garantire, quanto meno come finanziatori non sosteniamo chi ci vuole sparare."

L’era digitale che ormai “abitiamo” da circa un ventennio ha imposto all'Intelligence una trasformazione organizzativa. Come è cambiato il vostro lavoro con l’avvento di Internet, quali potenzialità ha portato e quali sfide?

“Siamo in un sistema democratico per cui i limiti all’invasione della privacy sono quelli previsti dalla legge. Rispetto ai tempi della guerra fredda, il mondo è diventato liquido e bisogna prendere decisioni in modo veloce. Se prima era un mondo top-down, ora è bottom-up. Un mondo policentrico dove i produttori di significati sono molteplici. La sfida per l’Intelligence, soprattutto pensando ai social media, è trarre dalla pluralità di fonti di informazione dei contenuti che possono essere utili e avere senso. Non a caso è recente lo sviluppo di una nuova branca che si chiama OSINT, Open Source Intelligence, perché nel web le notizie sono pubblicamente disponibili. Non è necessario forzare, bisogna solo saperle cercare, perché se c’è un’intervista interessantissima a Tolo tv che irradia in Afghanistan in lingua dari, ma non ho strumenti per conoscerla e sapere in tempo reale cosa dicono, non posso utilizzarla. È Osint anche un volantino distribuito nella striscia di Gaza o quello che viene detto durante la preghiera del venerdì nella moschea di Qom, in Iran: l’80% delle informazioni è già pubblico, e sono dati importanti per ottenere quelle altre informazioni che non si possono avere se non con gli 007 dei film. Quanto allo spionaggio cyber, si tratta di una minaccia gravissima perché può produrre un downgrading strutturale del Paese, far perdere di competitività le nostre imprese, oscurare quartieri di una città, mettere in ginocchio un primario provider telefonico, rubare brevetti. Spesso nella non consapevolezza di chi viene violato in questo modo, e così ci si ritrova che all’improvviso un Paese competitor è diventato più bravo di noi a fare una cosa simile, alla metà del costo. Nel contesto del cyber non è più uno Stato contro un altro Stato ma ci si deve difendere da un gruppo criminale, un singolo hacker, un gruppo mercenario che opera per conto di altri. Per fronteggiare la minaccia cyber, la nuova intelligence dei genietti 18enni “smanettoni” si affianca a quella tradizionale che lavora sul fronte del controspionaggio, ad esempio per capire se una persona che ha accesso a informazioni sensibili non abbia delle umane vulnerabilità che possono essere sfruttate."

Parliamo di reputazione. Un’indagine Eurispes pubblicata nel marzo scorso mostra che Il 62%  degli italiani si fida della nostra Intelligence e ritiene si debba conoscere di più il ruolo del Sistema di Informazione per la Sicurezza nella lotta al terrorismo, ai “lupi solitari”, alla cyber-war e agli attacchi al patrimonio di conoscenza delle nostre imprese. Il 72,6% dei cittadini sottolinea la scarsa chiarezza nella rappresentazione che i media forniscono rispetto al ruolo e alle attività dei Servizi Segreti, e il 53,2% afferma che i media dovrebbero dare più spazio all’argomento. Cosa può fare il DIS per incontrare questa esigenza?

“Prima l’Intelligence era una grande muraglia dietro la quale non si sapeva se ci fossero i buoni, i cattivi o se non ci fosse niente. Un tempo anche dire 'portavoce dell’Intelligence', era un paradosso. Poi ci si è resi conto dell’importanza di una comunicazione istituzionale e della diffusione di una cultura condivisa della sicurezza soprattutto nel settore del cyber, un campo dove confrontarsi con cittadini e aziende. Si è cominciato ad aprirsi e a raccontare quell’80% dell’Intelligence che non è segreto: il nostro sito risponde ad una serie articolata di domande, e abbiamo iniziato a lavorare con università e centri di ricerca per stabilire collaborazioni, verificando anche se per alcuni giovani l’Intelligence non possa essere un punto di approdo professionale, nella consapevolezza che seppur in piccole dosi questi innesti sono per noi un patrimonio estremamente importante. Per l’Intelligence è un momento storico, siamo consapevoli che possiamo fare un salto di qualità. La cultura della sicurezza è proprio questo: più riusciamo a far raccontare chi siamo e cosa facciamo, meglio riusciamo a promuovere la giusta percezione. In fondo siamo degli eroi buoni, meno eroici di quelli dei film, meno oscuri di una certa letteratura fatta di impermeabili stropicciati in una Berlino triste, sordida, di incontri e di figuri. C'è anche questo e gli inseguimenti in gommone lungo le mangrovie, ma i giovani che vengono a lavorare con noi sanno che sono chiamati ad un lavoro, talvolta in scenari difficili, basato innanzitutto su una sfida di tipo intellettuale."

Nell’ottica dell’apertura ai giovani il DIS promuove dal 2013 un tour tra le principali Università italiane chiamato “Intelligence live”, che prevede anche concorsi e premi. Di cosa si tratta?

“Ai giovani raccontiamo chi siamo e cosa facciamo, perché qualunque ruolo svolgeranno nella società domani, dovranno sapere chi sono coloro che si occupano della loro sicurezza. Con le università, al momento 20, auspichiamo - e già stiamo realizzando - l’avvio di percorsi culturali condivisi, soprattutto nel settore cyber”.

Ci sono anche opportunità di lavoro per i giovani?

“Sul nostro sito subito dopo l’inaugurazione, due anni fa, abbiamo pubblicato un annuncio, ricevendo circa 8mila richieste. Abbiamo fatto una scrematura e poi delle selezioni finali: oggi in 30 lavorano con noi. Ma ci si può proporre anche ora, con candidature spontanee. Un terzo canale di reclutamento è quello delle università che hanno i curricula degli studenti e sanno quali sono i requisiti di eccellenza che cerchiamo. Ci sono poi le chiamate dirette per persone con requisiti altamente specialistici, professionalità difficilmente reperibili. In questo ambito rientra per esempio la ricerca di medici esperti di biologia e malattie rare, settori che non sono di prima immaginazione per l’Intelligence ma dove c’è una componente scientifica molto importante”.

Servono a fronteggiare, ad esempio, il rischio di guerre batteriologiche o chimiche?

“Sulle guerre chimiche nello specifico servono studiosi che sappiano capire se qualcuno stia inventando qualche nuovo composto, o esperti di nuove tecnologie applicate ai materiali”.   

Ha parlato della necessità di promuovere una cultura della “sicurezza partecipata” che coinvolga anche i cittadini e le aziende. Nel concreto come si opera?

“Si promuove sicurezza partecipata parlando appunto nelle università o rilasciando interviste alla stampa, anche se non sempre il messaggio arriva correttamente perché talvolta il giornale o la testata on line si esprime di pancia, ha comunque regole di testata e priorità politiche. Significa, senza disvelare segreti, aiutare la corretta percezione di quello che accade. Ad esempio parlare dell’Isis in maniera corretta. Ma se un cittadino mi scrive preoccupato e chiede di arrestare un musulmano che prega sotto casa, non si è capito qual è il problema perché magari qualcuno ha raccontato il fenomeno in modo sbagliato. Sicurezza partecipata significa che una piccola azienda non ha timore di chiederci consulenza perché sa che non le rubiamo i segreti ma la proteggiamo. Un ostacolo importante è proprio la reticenza a raccontare di aver subito un attacco, privando l’Intelligence di informazioni importanti per capire chi può esser stato e come opera, e dunque per proteggere l’azienda colpita e altre realtà di impresa da attacchi futuri. Sicurezza partecipata è sapere che l’Intelligence non ha gli uomini rana che vanno ad affondare i barchini ma fa altre cose: è suscitare le giuste aspettative, sentirsi sicuri, conoscere le leggi che ci proteggono, sapere quello che possiamo e non possiamo fare. Conoscere i propri diritti. Per esempio non violiamo la privacy di nessuno su Facebook o nella corrispondenza, e se succede vuol dire che siete dei terroristi e che noi abbiamo utilizzato quelle che si chiamano le 'garanzie funzionali' e c’è stato un magistrato che lo ha autorizzato. Nel nostro Paese cerchiamo una buona mediazione fra esigenze di tutela della privacy e sicurezza”.

E’ recente anche una svolta nei documenti secretati: le carte delle stragi - negli anni di piombo delle BR e di Ordine Nuovo, ma anche di Ustica e l’Italicus – sono ora a disposizione di studiosi, giornalisti e cittadini.

“Ritengo molto positiva l’iniziativa del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi - che ha trovato il nostro pieno sostegno - di pubblicare anticipatamente 15 anni di eventi stragisti, dal ’69 all’84. Non che ci siano misteri non ancora conosciuti ma fino ad ora i cittadini avevano informazioni sugli eventi di strage da chi aveva titolo a farglielo sapere, ovvero dalla magistratura o dalle commissioni parlamentari d’inchiesta. Hanno avuto il precipitato di una lettura tecnica dei fatti ma mancava una lettura storica di questi accadimenti basata non sulle ideologie ma sulle carte. Temo, ed è comprensibile di fronte a fatti così temibili, che talvolta sia mancata la giusta serenità nel giudicare. Oggi, invece, lo storico può guardare queste carte in una prospettiva di contesto, allargata, comprendente anche quei documenti che non contenevano elementi conclusivi per i magistrati ma storie, percezioni, analisi, episodi collaterali. Questo dà ai cittadini la possibilità di riappropriarsi di un pezzo della loro storia e della loro memoria. Una scelta che risponde anche alle richieste dei familiari delle vittime delle stragi, che chiedevano di conoscere tutte le carte. Si è deciso con molta serenità e, per il Presidente Renzi, con molto coraggio politico. Aveva cominciato il Presidente Prodi per il carteggio Moro”.

Dove sono disponibili le carte delle stragi?

“All’Archivio dello Stato all’Eur di Roma sono disponibili per la consultazione delle copie digitali. Ma a brevissimo, forse dopo l’estate, per consentire a tutti un accesso facile, sarà possibile consultarle in remoto dal pc, loggandosi da casa e inserendo i propri dati personali, sarà possibile anche stamparli. Poiché volevamo essere certi che il nostro metodo fosse scientificamente condiviso dalla comunità degli storici e degli archivisti, ci siamo confrontati con gli esperti dell’Archivio centrale dello Stato. Anche questo è provare a comunicare fiducia”.

Parlando del rapporto coi media, che cosa fino ad oggi i giornalisti non hanno saputo raccontare dell’Intelligence, e cosa fanno fatica a cogliere nel modo giusto?

“A volte una delle difficoltà, senza dolo, può essere il gusto a considerare la realtà molto più complessa di quanto non sia. Questo accade anche nel nostro mondo. Per eccesso di intelligenza o di dietrologia, a volte riesce difficile immaginare come le cose siano più banali di quanto non appaiano, ma il mondo è molto più popolato da distratti, approssimativi, superficiali e imprecisi che da geni, e sono i primi a produrre le cose. L’altra difficoltà è il complottismo a tutti i costi di chi dice, per esempio, “ma figurati se il vostro uomo era lì per…”. Il minimalismo non piace.

Un’altra difficoltà ancora è pensare che l'Intelligence subisca l’influenza dei partiti politici. Noi siamo servitori dello Stato che, nel lavoro, si devono spogliare da qualunque affiliazione, ovvero analisi di tipo emotivo. E se qualcuno mi chiede “è vero che i terroristi vengono sui barconi?” rispondo che al momento è una sciocchezza perché questi uomini vogliono essere martiri di Allah e non del mare. E siccome in Italia si arriva facilmente via terra, non è questo il sistema attraverso cui varcano le frontiere. Ma non solo. Un altro elemento che rischia di esporre il fianco a difficoltà è far comprendere la differenza fra un’analisi e un’informazione operativa. Spesso piace a una certa stampa o a una certa politica reificare un’analisi trasformandola in informazione. Un’analisi ha il suo peso: a differenza dell’Australia, l’Italia è nel Mediterraneo, a Roma c’è il Papa, fra poco ci sarà il Giubileo, e c’è una cospicua comunità musulmana, per non parlar dei flussi migratori. 

Non c’è dubbio che questi siano dati ma accanto a questi servono informazioni. Certo nessuno mi garantisce dal lupo solitario, ma così finisce che sventolo anch’io la bandiera nera dell’Isis.

Altro punto critico è la certificazione delle fonti, fondamentale in ogni lavoro di valenza scientifica: nel web c’è tutto e il contrario di tutto e ci sono ricercatori e giornalisti fai da te che trovano un logo postato da qualcuno o pubblicato su un sito - che in realtà ha finalità diverse dalla propaganda terrorista - magari presente in rete da mesi, e lanciano l’allarme: “minaccia su Roma”. Il problema è dunque la pluralità di fonti inattendibili che producono falsi allarmi perché questo indebolisce anche la nostra azione. Il lavoro più difficile è non creare la percezione di un pericolo che non esiste. C’è stato un tempo in cui la comunicazione andava nella direzione opposta, con la tendenza a parlare di rischi, perché 'se non succede niente siamo stati bravi, se succede qualcosa lo avevamo detto'. E poi è un modo anche per ottenere fondi e avere udienza in luoghi dove altrimenti nessuno ti ascolterebbe. Non facciamo allarmismo a buon mercato: il nostro compito è tutelare i cittadini”.

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